Grazie Marco ed è un piacere essere qui con voi, con gli amici della Luca Coscioni per questo congresso dei dieci anni. In questi pochi minuti volevo percorrere con voi un paio di spunti che partono proprio da questa consapevolezza che siamo a dieci anni dalla fondazione ed è quindi il tempo di dire che cos’è stato fatto e soprattutto di vedere che cosa si può fare per fare un salto, per proiettarci nei prossimi dieci, venti anni. E secondo me il salto consiste in questo: ci sono stati dei grandissimi successi nella mobilitazione pubblica su molti temi che hanno a che fare con la vita e con il corpo delle persone, con le nostre libertà. Molti successi in sede giuridica che hanno portato allo smantellamento di alcuni aspetti della Legge 40. Quello che però non siamo riusciti a fare, secondo me, è di portare questi temi davvero al cuore della politica. Cioè, quello che non siamo riusciti a fare è di fare in modo che le campagne elettorali si facessero anche su questi temi. In Italia, come sapete, vige ancora quella splendida costruzione, splendida in senso ironico, nel senso di molto scaltra, furba, che relega questi temi nel box dei temi etici il che consente quindi alle più grandi forze politiche, de facto, di non fare una vera battaglia su questi temi e certamente di non farla nel momento in cui noi siamo chiamati a scegliere. Ed è una costruzione sociale strumentale per fare in modo che si possa parlare di altro e che queste cose siano lasciate nella sfera etica. Ora, a parte che da un punto di vista epistemologico e sociale, non ha alcun senso parlare di temi etici nel senso che questi siano temi etici contro altri che si suppone non lo siano. Evidentemente un problema come l’Ilva di Taranto, un problema come le scelte economiche di un governo che evidentemente incidono sulla vita quotidiana delle persone, sono problemi etici tanto quanto – se non di più – dei temi che vengono chiamati etici per metterli da parte. E quindi la sfida che non siamo riusciti a vincere e su cui dobbiamo interrogarci per vincerla come associazione è di fare in modo che questi temi, in maniera incalzante, vengano sottratti al tappeto dei cosiddetti temi etici e diventino i temi della politica perché sono i temi della biopolitica e quindi della politica nel senso più vero, più alto e più profondo della parola. Volevo segnalare questo tema perché, secondo me, come associazione dobbiamo porci il problema, soprattutto in quest’anno di campagna elettorale, di come fare in modo che su questi temi non si possa più dire che sono fuori dalla campagna, dal programma, così da evitare risposte fumose prima per poi lasciare questa chimerica libertà di coscienza. Perché, la libertà di coscienza dei parlamentari, cioè il disimpegno prima per poi fare quello che si vuole dopo, è naturalmente allo stesso momento una libertà di coscienza del parlamentare che nega, de facto, la libertà di scelta dell’elettore perché se uno non può scegliere su questi temi perché sono lasciati alla cosiddetta eticità del singolo, evidentemente non ha senso scegliere. Quindi secondo me la grande sfida che abbiamo davanti è quella di fare in modo che davvero questi temi dal corpo dei malati al cuore della politica arrivino al centro in maniera diretta. Avendo fatto queste considerazioni generali, volevo adesso considerare tre punti che sono più specifici e che hanno a che fare con degli aspetti molto pratici che, secondo me, come associazione dovremmo incominciare ad affrontare. Il primo è quello che ha a che fare con la regolazione delle terapie basate su una serie di nuove tecnologie che includono in grossa parte le cellule staminali. Il motivo è semplice, quando noi diciamo che vogliamo andare dal corpo dei malati al cuore dalla politica tendiamo a pensare che il cuore della politica si identifichi con i parlamenti, con i tribunali etc. Ma naturalmente le agenzie regolatorie, il modo in cui i Paesi – nel nostro caso il continente europeo – decide su quando è il momento di testare nuove terapie, qual è la soglia di rischio accettabile, qual è la convergenza tra i criteri scientifici e criteri sociali ed economici che deve avvenire per cominciare a testare le terapie, evidentemente questo è anche un momento politico. Potremmo dire che per i malati, per il corpo di molti di noi è il momento politico per eccellenza e quindi portare la nostra voce dal corpo dei malati al cuore della politica vuol dire aprire questa scatola della politica; cioè capire come avviene la regolazione dell’immissione nella sperimentazione di nuove terapie e quanto e come questo processo può essere reso più responsabile dal punto di vista democratico. Questo processo deve ovviamente includere gli esperti, il parere degli esperti scientifici, esperti delle agenzie regolatorie; ma anche la voce dei pazienti, che poi sono le persone che devono decidere quando è sicuro abbastanza da poterci provare; che è un tema di enorme dibattito nel campo delle cellule embrionali e staminali, è una questione che secondo me come associazione ci deve vedere molto coinvolti da vicino. Dobbiamo fare uno sforzo collettivo per informarci e informare non solo i nostri iscritti ma anche il pubblico italiano ed europeo su come avviene il processo regolatorio e quali parti di questo processo possono essere rese più trasparenti. L’altro punto ha a che fare con un altro salto di qualità che l’associazione può fare e riguarda gli sviluppi tecnologici che sono maturati negli ultimi anni, inimmaginabili ai tempi della battaglia di Luca, e hanno a che fare con quella che chiamiamo riprogrammazione cellulare, molti di voi ne avranno già sentito parlare, cioè la possibilità che oggi dalle cellule della pelle di ciascuno di noi si possano ricavare delle cellule in vitro che noi chiamiamo pluripotenti indotte ma che per capirci hanno le stesse proprietà delle cellule embrionali e staminali e che quindi per la prima volta nella storia della medicina ci consentono di avere in vitro un potenziale modello della malattia di ogni malato. È la prima volta che il processo patologico e il tessuto malato possano passare da una persona a un piatto di laboratorio ed essere quindi per la prima volta oggetto di studi scientifici impensabili prima del 2006 quando la tecnica è stata resa possibile da un collega giapponese. Questo sta portando lo studio delle malattie a una scala e a un livello ambizioso teorico e pratico mai visto prima; si parla non solo di prendere queste cellule per rimetterle nel corpo del paziente ma per studiare in maniera radicalmente diversa a livello concettuale il processo di malattia. Alcuni Paesi investono massicciamente su questa tecnologia. In alcuni di questi Paesi l’investimento è soprattutto pubblico in altri è privato; si reclutano massicciamente pazienti per costruire grandissime banche di linee cellulari che sono linee di malattia sulle quali si possono testare nuovi farmaci. L’Italia non ha un sistema nazionale su questa frontiera tecnologica come non lo ha su nessuna delle frontiere tecnologiche aperte o da aprire. L’invito che pongo a noi dell’associazione e se non è arrivato il momento – e secondo me è arrivato – di pensare all’associazione come catalizzatore di risorse, finanziamenti e di promozione di questo tipo di ricerca. Sarebbe ridondante con altri sforzi simili che ci sono in Italia? No, in Italia sono pochissime le associazioni di pazienti che danno soldi alla ricerca bio-medica e in ogni caso l’investimento italiano in ricerca è risibile. Quindi il primo ostacolo per andare dal corpo dei malati al cuore della politica è proprio l’ostacolo di fare in modo che si possa percorrere questa strada. C’è un solo modo per farlo è quello di sostenere la ricerca e secondo me l’associazione ha maturato sufficiente esperienza e sufficienti risorse ed è diventata centrale nella vita dei pazienti e delle associazioni dei pazienti in Italia per fare un salto e proporsi come un nuovo polo di aggregazione, di finanziamenti, di infrastrutture e di risorse per far si che anche l’Italia salti su questo treno, senza precedenti, della modellistica delle malattie umane su cu altri Paesi sono già ampiamente saliti. Ultimo punto è una risposta all’intervento di Sergio D’Elia perché secondo me vanno precisate alcune cose. Abbiamo sentito una ricostruzione degli ospedali e della medicina tecnologica su cui vale la pena di spendere qualche parola nel contesto di questa associazione, nel senso che molti di noi in questa sala hanno letto Michel Foucault e lo ammirano per la sua visionaria analisi di cosa è un ospedale non solo come sito di cura ma anche di potere. Un’asimmetria di potere che qualche volta è semplicemente inevitabile; altre volte è arbitrio. Quindi siamo tutti consapevoli di quelle che sono le possibili degenerazioni che la medicina nella sua accezione di potere può avere. Però vorrei mettere in guardia tutti noi e anche Sergio da una certa tendenza che ho scorto nella parte finale del suo intervento, una certa idea di naturalità, ha parlato di élan vital – beninteso non c’è niente di male a parlare di quello che la scienza delle molecole non spiega; è chiaro a tutti noi che siamo quelli che la fanno la scienza, che i successi della biologia molecolare e della medicina che stanno cambiando il volto di tante malattie non sono esaustivi della condizione dell’essere malato. Evidentemente nella condizione di essere malato c’è anche altro che va al di là della disorganizzazione delle molecole; c’è una domanda di senso che non può essere esaurita nello sviluppo di un farmaco o di una terapia cellulare per quanto di successo. Questo credo che sia ovvio a tutti. Quello a cui dobbiamo stare attenti, in Italia, è questo invito – che mi è sembrato cogliere nel suo intervento -, a riappropriarci di questa sfera del naturale, dell’elan vital, perché Italia è già un Paese che nella naturalizzazione di cose che naturali non sono, fonda tanti divieti. L’Italia è il paese della famiglia naturale di questa costruzione sociale che viene naturalizzata e tante cose non si possono fare perché suppostamente naturali. All’epoca della vicenda Englaro si diceva che la nutrizione artificiale di Eluana fosse come dare il pane e l’acqua, ed era questo momento naturalizzante la risorsa dialettica che veniva usata per invocare il non diritto a sospendere quella nutrizione. Quindi, evidentemente, in un Paese come il nostro che è politicamente molto poco coraggioso e ambizioso e che ha continuamente bisogno di fondare le sue certezze su un idea di natura che viene continuamente reinventata e ricostruita, starei molto attento. E, certamente attento come associazione Coscioni, ad aprire nuovi varchi a questa narrazione della natura che per i nostri scopi trovo invece molto pericolosa e controproducente.