Negli ultimi anni in Italia assistiamo ad una revisione in chiave riduttiva dei diritti civili essenziali del cittadino che ha di fatto svuotato di contenuto, situazioni giuridiche di rilevanza costituzionale la cui centralità indiscussa risulta confermata anche a livello europeo. Ciò, come vedremo, ha spostato l’area di naturale definizione dei rapporti civili tra cittadini ed Autorità direttamente nelle aule di giustizia. Questo per ragioni che in prevalenza si identificano in presunte esigenze di bilancio o in ostacoli dovuti alla complessità e delicatezza dei temi “eticamente sensibili” a cui tali diritti sono strettamente legati e alle riflessioni che scaturiscono dal loro effettivo riconoscimento. Tra questi vi è certamente coinvolto in qualità di vittima, il diritto alla salute garantito nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 32 Cost. e che rappresenta, all’interno dell’ampio dibattito affrontato nell’odierno Congresso, il minimo comune denominatore dei vari temi riguardanti la personalità dell’individuo. L’osservatorio privilegiato per noi avvocati delle aule di giustizia che quotidianamente ci pone davanti alla complessità di questi temi e all’esigenza di ricercare soluzioni concrete ai conflitti che vedono coinvolti tali diritti fondamentali, ci permette di poter svolgere alcune osservazioni critiche sullo stato si salute dei diritti civili in Italia.   

Anzitutto con riferimento alla L. 40/04 per la quale i tempi sono ormai maturi per provocare un serio dibattito, fuori e dentro il parlamento, per modificare la legge secondo le indicazioni provenienti ormai da anni sia dai giudici nazionali che di recente anche dai giudici europei. Proprio con riguardo all’ultima pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28 agosto scorso sul tema della procreazione medicalmente assistita, si può sin d’ora anticipare che in caso di mancata impugnativa da parte del Governo italiano o di conferma in sede di impugnazione della decisione resa, l’Italia potrebbe ritrovarsi in una condizione in cui sarà obbligata a procedere alle necessarie modifiche della L. 40 dal momento che i Giudici di Strasburgo nell’accertare la violazione da parte dell’Italia dell’ art. 8 della Convenzione Europea[1] ha condannato il Governo a risarcire il danno subito dalla coppia per le incoerenze della L. 40/04. Sappiamo benissimo che, come già accaduto per altre questioni riguardanti ad esempio l’eccessiva durata dei processi e le espropriazioni illegittime delle PP.AA, nel caso di reiterate condanne per contrasto della normativa italiana con le norme della convenzione, l’Italia quale paese membro del Consiglio d’Europa, potrebbe ritrovarsi nella condizione di violazione strutturale delle norme della Convenzione che ci esporrebbe in maniera diretta al rischio di condanne reiterate da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Situazione questa che dovrebbe indurre il legislatore italiano a riflessioni più obiettive sul punto in un’ottica di maggiore  tutela dei diritti civili.

Ma vediamo quali sono stati gli orientamenti giurisprudenziali nazionali, favoriti anche dalle iniziative giudiziarie promosse dall’Associazione Coscioni, che in questi ultimi anni hanno contribuito a disinnescare il potenziale distruttivo della L. 40 e preparato il terreno, sotto il profilo argomentativo, alla recente decisione della Corte Europea sul tema della fecondazione assistita. Mi limiterò per ragioni di tempo ad esaminarne alcune tra le più significative precisando che per almeno i primi due anni dall’entrata in vigore della L. 40/04 l’orientamento dei giudici, investiti dei vari profili di illegittimità anche costituzionale di tale normativa, si è attestato su posizioni prevalentemente negative. Tra i primi a rompere gli indugi sono stati i Tribunali di Cagliari e Firenze.    

Con sentenza del 24 Settembre 2007, il Tribunale di Cagliari riteneva ammissibile la diagnosi genetica preimpianto sulla base di un’interpretazione delle norme della L. 40/04 conforme a Costituzione e disapplicava la disposizione delle Linee Guida Ministeriali del 21/07/04 che aveva introdotto divieti non previsti dalla legge limitando la diagnosi preimpianto alla sola indagine osservazionale. Anche i Giudici del Tribunale di Firenze con Ordinanza del 17 dicembre 2007, ammettevano la PGD disapplicando la disposizione delle Linee Guida, ritenendo che nella legge 40 del 2004 non vi fosse alcun divieto di diagnosi genetica preimpianto autorizzando altresì la crioconservazione degli embrioni soprannumerari. Successivamente il TAR Lazio con sentenza 21 gennaio 2008, n. 398 annullava per eccesso di potere il capo del D.M. 21 Luglio 2004 intitolato alle “Misure di Tutela dell’embrione”, laddove si statuiva che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’articolo 13, comma 5, doveva essere di “tipo osservazionale” che aveva privato di fatto l’utilità pratica di tale esame. Sollevava quindi la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 2 e 3, della legge n. 40 del 19 febbraio 2004 per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Le motivazioni della sentenza evidenziavano che “In buona sostanza, fermo il generale divieto di sperimentazione su ciascun embrione umano, la legge n. 40 del 2004 consente la ricerca e la sperimentazione e gli interventi necessari per finalità terapeutiche e diagnostiche”. Il TAR Lazio pertanto confermava la portata della legge numero 40 del 2004 nella parte in cui prevedeva la possibilità di effettuare indagini cliniche diagnostiche sull’embrione.

Successivamente alla decisone del Tar Lazio venivano emanate nuove linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, firmate dal Ministro della Salute l’11 aprile 2008 (il decreto è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 2008-serie generale num.101). Il testo delle linee guida, entrate in vigore nel 2008 a seguito della decisione TAR in osservanza della legge 40/04, prevede l’indagine diagnostica sull’embrione.[2] Seguivano alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal T.A.R. del Lazio altre due ordinanze sostanzialmente confermative di tale orientamento. Con Ordinanza del Tribunale di  Bologna del 29 giugno 2009 veniva data piena attuazione alla Sent. Corte Cost. 151/09 e disposta l’applicazione della diagnosi preimpianto di un numero minimo di sei embrioni e il trasferimento in utero dei soli embrioni sani. Veniva inoltre disposta la crioconservazione degli embrioni sovrannumerari. Il Tribunale di Salerno con Ordinanza del 9 gennaio 2010 ordinava l’esecuzione della PGD e il trasferimento in utero degli embrioni che non avessero presentato mutazioni genetiche. Per la prima volta veniva riconosciuto alla coppia non sterile in senso tecnico la possibilità di accedere alla PMA in deroga a quanto previsto dalla legge. Nel caso di specie il Giudice ha infatti affermato che: «Il  diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di pma da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili; solo la pma attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura “costituzionalmente” orientata dell’art. 13 L.cit., consentono di scongiurare tale simile rischio”». Con tale Ordinanza il Tribunale di Salerno compiendo un passo ulteriore rispetto alla decisione del Tribunale di Bologna che pure aveva riconosciuto l’accesso alle tecniche di PMA pur non essendo sterili in senso tecnico, affermava “il diritto della donna al figlio”, diritto soggettivo da ascriversi tra quelli inviolabili “della Donna” ai sensi dell’art. 2 Cost. Consegue da ciò che anche le scelte consapevoli relative alla procreazione vanno inserite nel novero dei diritti fondamentali costituzionalmente tutelati. Per tale via, il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative deve necessariamente comprendersi nel novero dei diritti fondamentali e personalissimi di entrambi i genitori congiuntamente, in modo da garantire la pariteticità della tutela alla libera ed informata autodeterminazione di procreare nel rispetto del diritto alla salute. Nel frattempo la Corte Cost. con Ordinanza della n. 97 del 12 marzo 2010 confermava la portata della sentenza n. 151 del 2009, che si ricorda era intervenuta sull’art. 14 co. 2 della L. 40/04 eliminando il limite numerico di tre embrioni mentre al co. 3 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui non prevedeva che il trasferimento degli embrioni, da realizzare “non appena possibile”, dovesse effettuarsi in ogni caso senza pregiudizio della salute della donna. In una successiva Ordinanza di Luglio 2010, sempre il Tribunale di Salerno ordinava per la seconda volta, per altra coppia, l’esecuzione della PGD e il trasferimento in utero degli embrioni che non avessero presentato mutazioni genetiche. Ancora una volta quindi veniva riconosciuto alla coppia non sterile in senso tecnico, la possibilità di accedere alla PMA in deroga a quanto previsto dalla legge.

Nel frattempo viene nuovamente investita della questione di legittimità costituzionale la Consulta che con Ordinanza N. 150 del 22 maggio 2012, intervenendo nuovamente sul testo della L. 40, questa volta sul divieto di fecondazione eterologa (Art. 4 co. 3), ha affermato che rimuovere il divieto di eterologa nella Legge 40 è ammissibile, ma i giudici che hanno sollevato i dubbi di costituzionalità sull’eterologa dovranno ampliare il quadro delle prospettazioni a sostegno delle eccezioni di incostituzionalità, considerando i principi nel frattempo enunciati dalla Grande Chambre nella decisione del 3 novembre 2011sul caso S.H. e altri c. Austria che aveva dato rilevanza in materia al margine di apprezzamento riservato agli Stati membri e rimettendo così gli atti ai giudici di merito.

In tale scenario si inserisce la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28/08/2012(ricorso n. 54270/10) sul caso Costa – Pavan c./ Italia. Con tale decisione la Corte afferma che il divieto stabilito dalla legge n. 40 del 2004 che impedisce il ricorso alla fecondazione omologa in vitro a una coppia fertile portatrice sana di fibrosi cistica risulta contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il ricorso nasce dall’iniziativa di due coniugi, entrambi portatori sani di una malattia genetica (la mucoviscidosi) che lamentavano di non poter ricorrere allo screening embrionale per la fecondazione in vitro, per evitare la gravidanza nel caso l’embrione fosse risultato portatore della malattia.

 

Nel 2006 i due coniugi avevano infatti già avuto una bambina nata con la patologia della fibrosi cistica, scoprendo allora di essere portatori sani della malattia. Quando la donna nel 2010 era rimasta nuovamente incinta, aveva scoperto – dopo essersi sottoposta agli screening prenatali – che il feto era affetto dalla malattia, decidendo quindi di praticare l’interruzione di gravidanza. La coppia quindi voleva concepire un altro bambino, avendo però la certezza che fosse sano. Il che è possibile solo attraverso la pratica della fecondazione assistita, mediante selezione degli embrioni (sani) attraverso diagnosi pre-impianto.

Possibilità che è però esclusa dalla legge n. 40 del 2004, sulla procreazione assistita, secondo cui il ricorso alla fecondazione in vitro è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione, essendo l’accesso a tale tecnica comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegabili documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico.

La coppia pertanto si rivolgeva alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, senza aver peraltro esaurito l’iter ordinario di fronte ai Tribunale italiani.

I ricorrenti quindi lamentavano la violazione dell’art. 8 (rispetto del diritto alla vita privata e familiare) e dell’art. 14 della Convenzione europea (divieto di discriminazione rispetto alle coppie che si trovano in una delle due situazioni sopraindicate, che possono accedere allo screening embrionale) anche sulla base delle argomentazioni portate all’attenzione della Corte che richiamavano le motivazioni espresse dal Tribunale di Salerno con l’ordinanza del 13 gennaio 2010 che, appunto, aveva affermato che il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, sarebbero stati irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme della legge 40/2004 che avesse impedito il ricorso alle tecniche di pma da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiavano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili.

La Corte europea ha constatato che, nell’ordinamento italiano, la possibilità di accedere alla procreazione assistita da un punto di vista medico è unicamente consentita alle coppie sterili o infertili così come alle coppie di cui l’uomo è portatore di malattie virali trasmissibili (H.I.V., epatite B e C, così l’articolo 4, capoverso 1, della legge n. 40/2004 ed il decreto del Ministero della salute n. 31639 del 11 aprile 2008). I ricorrenti, che non fanno parte di queste categorie di persone, non possono accedere alle tecniche di procreazione assistita. Quanto all’accesso alla diagnosi pre-impianto, è lo stesso Governo italiano, in sede di memorie difensive, a riconosce esplicitamente che l’accesso a questa tecnica è vietato nel diritto interno ad ogni categoria di persone. Secondo i giudici di Strasburgo, un’interdizione di questo genere oltre a privare i ricorrenti di una valida ed effettiva via di ricorso interna e dunque di uno strumento di reazione alla violazione delle norme della CEDU adeguato, costituisce un’ingerenza priva di giustificazione e proporzionalità nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare.

Secondo i giudici, la cui decisione diverrà definitiva entro tre mesi se nessuna delle parti farà ricorso, «il sistema legislativo italiano in materia di fecondazione assistita e diagnosi preimpianto degli embrioni è incoerente».

In particolare la Corte ha fondato la sua pronuncia sull’art. 8 della Cedu per cui: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare».

I giudici rammentano che la nozione di “vita privata” di cui all’articolo 8 è una nozione larga che ingloba il diritto per l’individuo di annodare e sviluppare delle relazioni coi suoi simili[3]. In tal senso anche l’incisione su fattori come l’identità, l’orientamento e la vita sessuale rientra nella sfera personale protetta dall’articolo 8[4].

Sotto il profilo dell’art. 8 della Convenzione, la Corte ha riconosciuto, in specie, il diritto dei ricorrenti di veder rispettata la loro decisione di diventare genitori [5].

In tal senso, evidenziano i giudici della Corte Europea, il desiderio dei ricorrenti di procreare un bambino che non sia colpito dalla malattia genetica di cui sono portatori sani e di ricorrere, per ottenere ciò, alla procreazione assistita ed alla diagnosi pre-impianto, rientra nell’ambito di protezione dell’articolo 8, in quanto una simile scelta costituisce una forma di espressione della loro vita privata e familiare.

Né sono bastate le osservazioni svolte dal Governo italiano nei propri atti difensivi per cui tale divieto sarebbe valso a proteggere la salute del “bambino” e della donna, la dignità e la libertà di coscienza degli esercenti la professione medica e l’interesse generale di evitare il rischio di derive eugenetiche.

La Corte non è stata convinta da questi argomenti speciosi e ideologici: in primo luogo, nel sottolineare come la nozione di “bambino” non possa essere assimilata a quella di “embrione”, i giudici si chiedono come la protezione degli interessi evocati dal Governo si concili con la possibilità aperta ai ricorrenti di procedere all’interruzione volontaria di gravidanza alle stesse condizioni di fatto. Inoltre, ha ritenuto del tutto apodittiche le altre giustificazioni addotte dal Governo italiano, il quale ha omesso di spiegare in quale misura sussista un rischio di derive eugenetiche e in quale modo la pratica della diagnosi pre-impianto verrebbe a ledere la dignità e la libertà di coscienza degli esercenti le professioni mediche, i quali sono peraltro già tutelati dal diritto di esercitare l’obiezione di coscienza.

Le conseguenze dell’incoerenza insita nel sistema instaurato dalla legge n. 40/2004 risultano di tutta evidenza, in quanto per proteggere il loro diritto di mettere al mondo un figlio sano, i ricorrenti, in tale fattispecie,  sono stati costretti a procedere naturalmente al concepimento, potendo verificare solo in una fase successiva la salute del feto e, pertanto, dovendo poi (accertato che il nascituro era affetto dalla malattia ereditaria) ricorrere inevitabilmente all’aborto. Tutto ciò, con il conseguente carico di sofferenze e drammi che accompagnano tali vicende, sarebbe stato evitato se si fosse consentito agli stessi di accedere alla fecondazione in vitro e di effettuare la diagnosi pre-impianto.

In sintesi, la Corte di Strasburgo ha giudicato irragionevoli gli articoli 13 e 4 della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita; il primo infatti vieta «qualsiasi sperimentazione su embrione umano», mentre il 4 sostiene che la pratica è consentita solo alle coppie sterili[6].

Si deve infine rammentare, la portata che avrà tale sentenza nell’ordinamento italiano se diverrà definitiva, nella misura in cui è orientamento consolidato della Corte costituzionale quello per cui “in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU […] può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa”[7].

Quindi, in base ai principi enunciati dalla Corte, il giudice comune dovrà interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale “entro i limiti nei quali ciò è permesso dai testi delle norme e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica”. Solo qualora ciò non sia possibile, egli deve investire la Corte costituzionale delle relative questioni di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, co. 1, Cost.

A seguito della ratifica da parte dell’Italia del Trattato di Lisbona, che all’art. 6 dispone l’adesione della UE alla CEDU da cui conseguirebbe la ‘comunitarizzazione’ del diritto della Convenzione, il giudice interno deve disporre direttamente l’applicazione della norma o dei principi espressi dalle decisioni della CEDU con conseguente disapplicazione della norma interna incompatibile.

Si prospetta pertanto una nuova sfida per i giudizi comuni i quali dovranno procedere in un opera di reinterpretazione, conforme alla giurisprudenza Cedu e allo spirito della Convenzione, dell’incoerente e macchinoso meccanismo legislativo imposto dalla legge 40 del 2004.

Restano tuttavia ancora molti nodi irrisolti all’interno della L. 40 con conseguente necessità di tutelare i diritti dalla stessa disconosciuti. Essi riguardano gli artt. 1 e 4 riguardanti il divieto di accesso alle tecniche di PMA, per le coppie fertili ma portatrici di patologia genetica che abbiamo visto forse allontanarsi dal porto delle nebbie per approdare verso scenari di maggior tutela anche se ancora a livello giudiziario e che costringerà ancora le coppie a dover percorrere la via giudiziaria per il riconoscimento di tale diritto; gli artt. 4 comma 3 sul divieto di tecniche eterologhe sul quale dovrà ripronunciarsi la C.Cost. che si spera, re melius perpensa, giunga ad abrogare il divieto. Ed infine anche sugli art. 6 co. 3, divieto di revoca del consenso dopo la fecondazione dell’ovocita e l’art. 14 co. 1 sul divieto di utilizzo per la ricerca scientifica di embrioni non idonei per una gravidanza si dovrà ancora lavorare molto.

Come già accennato si profila, laddove dovesse consolidarsi l’orientamento dalla Corte Europea, la possibilità per le coppie che hanno subito la lesione dei loro fondamentali diritti a causa della L. 40, di far affermare la responsabilità dello Stato per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo disciplinati sia dalla CEDU (art. 8) che dalla nostra Costituzione (artt. 2, 3, 13, 29 e 32 Cost.) ed ottenere conseguentemente il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, dinanzi ai giudici nazionali che dovranno, come già evidenziato, disapplicare la normativa interna non conforme ai principi espressi dalla Corte Edu e, ove ciò sia stato fonte di pregiudizi, procedere a liquidare il danno. Il Governo italiano pertanto quale Stato membro del Consiglio d’Europa soggetto al controllo del Comitato dei Ministri sulla corretta esecuzione delle sentenze della Corte europea, dovrà quindi in tempi brevi provvedere alle necessarie modifiche legislative alla L. 40 secondo le indicazioni provenienti dai giudici europei se non vorrà avvitarsi nelle violazioni sistematiche che potrebbero, come già chiarito, condurre verso reiterate condanne per violazione dell’art. 8 e probabilmente dell’14 della CEDU.  

Un ulteriore cenno, a proposito di sciagurati interventi sulla sfera dei fondamentali diritti dei cittadini ed in particolare del diritto alla salute, merita il tema dei danneggiati da emotrasfusioni ed emoderivati infetti.

La materia del risarcimento danni da contagio di sangue infetto ha costituito oggetto di un contenzioso divenuto negli anni di proporzioni sempre più vaste, e tale da assorbire gran parte dell’attività degli Uffici giudiziari di tutta Italia. Accanto alla drammaticità, sotto l’aspetto umano, delle tematiche trattate, si pone la vastità delle questioni giuridiche che esse hanno alimentato, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto quello processuale: dalla legittimazione passiva, alla prescrizione (tipo, durata, dies a quo del computo del relativo termine); dai criteri di individuazione del nesso di causalità tra evento terapeutico e danno-conseguenza, all’accertamento dei profili di responsabilità dello Stato; dai parametri di determinazione del danno risarcibile, alla cumulabilità delle provvidenze risarcitorie con l’indennizzo liquidato ai sensi della legge n. 210/1992. Tutte questioni cui sono state fornite risposte eterogenee da parte dei giudici di merito (talvolta anche all’interno del medesimo Tribunale), per giungere, infine, all’orientamento, delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (577 e ss. del 2008), che pur non risolvendo appieno i dubbi e gli interrogativi ingeneratisi in quindici anni di dialettica processuale e di elaborazione dottrinale che qui non è possibile neppure sinteticamente approfondire, si apprestano a divenire ormai quasi orientamento consolidato.

Si ricorda che a seguito delle numerose sentenze di condanna pronunciate dai Tribunali nei confronti del Ministero della Salute, sono intervenute le leggi 222/07 e 244/07 che hanno ammesso la possibilità per i soggetti danneggiati di accedere a procedure di transazione con il Ministero. Condizione minima per l’accesso era di avere alla data di pubblicazione delle suddette leggi un giudizio pendente avente ad oggetto il risarcimento dei danni da emotrasfusioni infette o emoderivati rimandando la definizione di alcuni criteri per la determinazione del risarcimento del danno dovuto a seconda dei casi, ad una fonte regolamentare successiva. Ebbene a quasi cinque anni dall’emanazione di tali norme il Governo interviene, con clamoroso ritardo, con il DM 4 maggio 2012 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 162 del 13 luglio 2012, ndr), dettando condizioni  di ammissibilità delle domande per certi versi nuove e/o diverse rispetto a quelle inizialmente previste che escluderebbero molti soggetti che secondo gli iniziali criteri erano stati ammessi (la prescrizione ad esempio non era un presupposto, ma qualcosa di cui si sarebbe tenuto conto ai fini della stipula)[8]. La norma del D.M., oggetto di maggiore attenzione è l’art. 5, disposizione “devastante”, in quanto “introduce una rigida applicazione del principio di prescrizione che pare non tener conto dei giudizi in corso, in cui l’eccezione potrebbe non essere stata formulata dal Ministero della Salute, di eventuali sentenze positive, di atti interruttivi della prescrizione, dell’analogia e coerenza con la transazione del 2003 e, per emofilici e talassemici, dei criteri della precedente transazione,  introducendo una “barriera” – che tra l’altro escluderebbe coloro i quali siano stati contagiati prima del 1978 – che risulta in contrasto con la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione. Non si comprende ad esempio se i requisiti di cui all’art. 5 comma 1 lettere a, b e c, inerenti alla tempestività della proposizione dell’azione risarcitoria[9], debbano sussistere cumulativamente o sia invece sufficiente il verificarsi di anche una soltanto delle condizioni per escludere dall’iter transattivo. Così ad esempio i trasfusi occasionali prima del 24 luglio 1978 dovrebbero certamente contestare l’art. 5 comma 2 del decreto-moduli perché escludendoli si porrebbe in contrasto con la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione che è certamente dalla loro parte.

Chi ha fatto causa al Ministero della Salute più di cinque anni dopo la data di presentazione della domanda d’indennizzo ai sensi della L. 210/92 (art.5 comma 1 lett. a)), ma ancora non ha ottenuto sentenza, potrebbe far valere quale ulteriore motivo di impugnazione la circostanza che l’art. 5 comma 1 lettera a) del D.M. non disciplini espressamente i casi in cui il Ministero non abbia formulato, o lo abbia fatto in maniera incompleta o irrituale, l’eccezione di prescrizione e non prevede espressamente la possibilità di tener conto dell’esistenza di atti interruttivi della prescrizione inoltrati al Ministero o ad enti e strutture sanitarie coobbligati con lo stesso in solido, in ragione della corresponsabilità per le trasfusioni infette. Questi sono ovviamente solo alcuni degli aspetti di criticità evidenziati dal decreto che  potrebbero essere fonte di ulteriore contenzioso[10]. Insomma ragioni di buon senso prima ancora che di ordine giuridico inducono a condividere pienamente quanto già in più occasioni segnalato da TAR e Consiglio di Stato, ovvero che nello svolgimento della procedura transattiva, connotata da indubbi profili pubblicistici e regolata dai principi sul procedimento amministrativo, l’Amministrazione deve rispettare i principi di correttezza ed imparzialità e quindi, se preannunzia di volersi ispirare ai prevalenti orientamenti della giurisprudenza, lo deve fare in toto (sia sul piano del diritto sostanziale, sia sul piano del diritto processuale) e non limitatamente ai soli profili a sè più favorevoli.
In conclusione mi sembra di poter dire che la battaglia per i diritti civili in questo particolare momento storico, non possa che muoversi sul sentiero tracciato dai temi trattati in questo Congresso promuovendo, ove necessario, istanze nazionali ed internazionali per far sì che gli stessi siano effettivamente garantiti.



[1] Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

[3] Si vedano sul punto le sentenze della Corte EdU Niemietz c. Germania, 16 dicembre 1992, § 29, serie Ha no 251-B, sul diritto allo sviluppo della personalità, Bensaïd c. Regno Unito, no 44599/98, § 47, CEDH 2001-I, o ancora sul diritto all’autodeterminazione, Pretty c. Regno Unito, no 2346/02, § 61, CEDH 2002-III.

[4] v., per esempio, Dudgeon c. Regno Unito, 22 ottobre 1981, § 41, serie Ha no 45 e Laskey, Jaggard e Brown c. Regno Unito, 19 febbraio 1997, § 36, Raccolta 1997-I, Evans c. Regno Unito, precitato, §71, Ha, B e C c. Irlanda [GC], no 25579/05, § 212, CEDH 2010 e R.R. c. Polonia, no 27617/04, § 181

[5] Dickson c. Regno Unito [GC], no 44362/04, § 66, CEDH 2007-V; in materia di accesso alle tecniche di fecondazione eterologa (S.)H. ed altri c. Austria [GC], no 57813/00, § 82, CEDH, 2011

[6] «Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico»

[7] v. Corte cost., 24 luglio 2009, n.239, in Giur. Cost., 2009, 3004 ss.; in dottrina B. Randazzo, Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo: effetti ed esecuzione nell’ordinamento italiano, in N. Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana: avvicinamenti, dialoghi, dissonanze, Collana dei Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli, 2006, 295 ss.; A. Ruggeri, Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, Relazione al Convegno del Gruppo di Pisa su Corte costituzionale e sistema istituzionale, Pisa 4-5 giugno2010, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 12 ss.

[8] A questo proposito la Cassazione ribadisce, come già avevano evidenziato le sezioni unite nel 2008, che “sebbene il regime della prescrizione penale sia cambiato (L. 5 dicembre 2005, n. 251), va, tuttavia, osservato che la prescrizione da considerare, ai fini civilistici …, è quella prevista alla data del fatto”: il termine da prendere in considerazione è, quindi, quello che vigeva al momento del contagio. Diverso è anche il momento da cui la Cassazione fa decorrere la prescrizione:

– la domanda di indennizzo per i danni iure hereditatis;

– la morte del danneggiato per i danni iure proprio.

[9] L’art. 5 D.M. 4 Maggio 2012 così recita: «In attuazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2del regolamento i moduli transattivi si applicano ai soggetti che abbiano presentato istanze, entro il 19 gennaio 2010, per le quali: a) non siano decorsi più di cinque anni tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla L. 210/92, ovvero tra l’eventuale data antecedente rispetto alla quale risulti – in base ai criteri di cui all’allegato 6 al presente decreto – già documentata la piena conoscenza della patologia da parte del danneggiato e la data di notifica dell’atto di citazione, da parte dei danneggiati viventi; b) non siano decorsi più di dieci anni tra la data del decesso e la data della notifica dell’atto di citazione da parte degli eredi dei danneggiati deceduti; c) non sia già intervenuta una sentenza dichiarativa della prescrizione.»

[10] Si consideri inoltre che il Ministero considera la situazione economica dei danneggiati destinatari del risarcimento in base al modello ISEE senza considerare che nel corso nel corso di questi anni,  tale situazione potrebbe essere migliorata o peggiorata.