Grazie della possibilita’ di questo collegamento via Skype e mi scuso per la mia assenza. La storia che vi vorrei raccontare è breve e ha a che fare con i temi che ci interessano e cioè la scienza, la società e i governi. Il nostro obiettivo di ricerca e’ anche quello di altri laboratori nel mondo e riguarda la produzione di cellule, in questo caso neuroni, che muoiono in alcune malattie umane. Molti gruppi vogliono generare questi neuroni partendo da staminali, nella speranza che possano un giorno essere utili per capire le malattie e sperare di curarle. Anche noi partiamo da staminali, nel nostro caso embrionali, e da queste cerchiamo di ottenere i neuroni che degenerano nella Corea di Huntington, una malattia neurologica.  Non siamo mai riusciti a ottenere neuroni di qualità partendo da cellule staminali adulte, quindi ecco perché vogliamo lavorare con le staminali embrionali, perche’ da queste abbiamo risultati. Ma in questo momento vorrei soffermarmi su uno stadio di differenziamento che sta a meta’ tra la fonte di partenza, le staminali embrionali, e il prodotto finale, i neuroni. Questo stadio intermedio è chiamato “stadio di rosette neurali”. Può sembrare buffo il nome, ma queste cellule organizzate a rosette per noi sono uno stadio importantissimo perché questo è il momento in cui le cellule si organizzano tra loro e decidono il loro destino, cioe’ se diventare neuroni del tipo A piuttosto che del tipo B. Quindi è uno stadio nel percorso di maturazione delle cellule veramente importante. E tra l’altro queste rosette sono bellissime. Si chiamano rosette perché sembrano fiori, con un lume centrale e le cellule disposte in modo radiale, a raggiera. Uno degli obiettivi nostri e di altri gruppi è di far sì che le cellule in queste rosette acquisiscano le decisioni giuste, proprio per poi ottenere da esse i neuroni desiderati. Ci lavoriamo in mille modi e ci confrontiamo con gruppi nelle diverse parti del mondo. 

Proprio queste rosette, poche settimane fa, mi hanno portato in un paese per me nuovo, l’Iran. Ero partita per Teheran per curiosità, per conoscere la loro ricerca sulle cellule staminali, i loro studenti, per vedere le loro rosette. In tanti mi dicevano “sei matta, tra un po’ gli sganciano una bomba”. Come se si trattasse di un atto dovuto, come se non vi fossero persone sulle quali quella bomba rischiava di cadere. Sono atterrata in un Paese pieno di deserti splendidi e di umanità, di giovani che comprendono bene che qualcuno sopra la loro testa sta rubando loro la vita.

La domanda più frequente che ricevevo era “cosa pensi dell’Iran, e cosa pensi degli Iraniani”. Penso che siano persone come noi, forse più pacifiche, cariche di speranze, intrappolate in un destino attuale diverso. Ho incontrato giovani che vogliono studiare, capire, impegnarsi, ma qualcosa pare impedirgli di raggiungere la conoscenza. Da Teheran ho cercato di collegarmi ai siti web dei quotidiani italiani. E ogni volta mi veniva negato l’accesso. Non potevo crederci. Nel 2012 non potevo leggere su cosa stesse succedendo nel mio Paese distante solo poche ore di volo. Eppure era così. Sono 20 milioni i siti web censurati. Ma le persone vogliono sapere e gli studenti vogliono studiare. Girando l’Iran, non ho incontrato nessun altro straniero. In un’acropoli straordinaria di 4000 anni fa, l’attrazione turistica ero io e i miei pochi colleghi che avevano partecipato a quel viaggio di studio. Le persone chiedevano di far fotografie con noi. Alcuni ci dicevano che eravamo i primi stranieri che incontravano nella loro vita. Rifacevano le stesse due domande, come se avessero necessità di qualcuno che gli smentisse quell’immagine odiosa che l’estero ha del loro Paese… Mi ha fatto ricordare delle volte in cui mi sono vergognata delle immagini che il nostro passato governo rovesciava all’estero. Quante cose in comune!

Poi siamo entrati nei loro laboratori. E i laboratori ci sono. Nonostante le mille difficoltà che attraversano, le persone vogliono vincere la battaglia per la conoscenza. Nei laboratori hanno strumenti, magari non così aggiornati, ma fanno di tutto per poter studiare. Una giovane ricercatrice mi ha mostrato le rosette che otteneva dalle staminali embrionali. Erano identiche alle nostre, e identiche a quelle che ottengono i colleghi americani. Poi ho chiesto di mostrarmi le colorazioni delle rosette con i vari anticorpi che noi usiamo per decifrarne le caratteristiche. Non ne aveva: l’embargo impedisce ai reagenti di entrare nel loro paese. Non mi ero mai trovata in un paese in cui ti fotografano perché sei tra i pochi stranieri a varcare il loro confine e in cui dei colleghi scienziati non possono colorare le rosette con banalissimi anticorpi perché questi anticorpi non possono varcare quel confine.  Mi è sembrato di cominciare a capire cosa fosse un Paese “chiuso”, ciononostante pieno di dignità, le cui donne, bellissime, usano quel velo imposto per legge come un oggetto di ornamento, colorato, colorano gli occhi, colorano le labbra, hanno sorrisi splendidi, vogliono un futuro migliore, soffrono per ciò che non hanno e per le poche possibilità di conoscere e muoversi. Questo mi ha ricordato ancora una volta quanto la conoscenza sia l’elemento attraverso il quale le persone e i popoli acquisiscono maggiore dignità e quanto, in fondo, chi ne limita l’accesso, ovunque nel mondo, non miri ad altro che a minarne la dignità. Ovunque, la lotta per la conoscenza è sempre una giusta lotta.