Buongiorno, ringrazio il presidente, ringrazio l’Associazione per l’invito e anche l’amico Piergiorgio Strata, che mi ha convinto a venire. Sono contento di essere qui a parlare di ricerca scientifica perché alla ricerca con le mie modeste forze ho dedicato la mia vita, apprezzando il fatto di poterlo fare liberamente, come spero che sia ancora possibile farla. Io sono un vecchio neurofisiologo in pensione e ho fatto ai miei tempi esperimenti sugli animali, poi sono stato attratto dal fascino del cervello umano che ho studiato con mezzi psicofisici e con la neuropsicologia dei pazienti cerebrolesi. Ma non ho nessuna ragione di rinnegare gli esperimenti sui cervelli di gatti, anzi mi pare che siano ritornati di attualità perché hanno messo in evidenza dei meccanismi importanti per capire le condizioni in cui si trovano i pazienti in stato vegetativo, o in sindrome locked-in o in altri stati di coscienza alterata. Sono sempre convinto, dopo tanti anni, dell’importanza, anzi, dell’indispensabilità della ricerca sugli animali per rispondere a tante questioni riguardanti la vita e la salute dell’uomo.  Parafrasando la frase di Alan Turing adottata dal Congresso, dietro di noi ci sono tante conquiste della medicina e della biologia in cui è entrata la sperimentazione animale, ma davanti a noi ne rimangono tante altre ancora da fare per le quali la sperimentazione sugli animali sarà ancora necessaria. Quante malattie non solo dell’uomo, ma anche degli animali sono ancora incurabili, quante sofferenze ancora difficili o impossibili da alleviare? Chi ama veramente gli animali non può che auspicare che la medicina veterinaria sia fondata sulla scienza. Su un fondamento scientifico condiviso la medicina umana e quella veterinaria possono interagire proficuamente sulla strada del progresso comune.

Nei confronti della ricerca sugli animali, le persone più ragionevoli, che ne capiscono la necessità ma anche non tollerano le sofferenze inutili, chiedono la riduzione degli esperimenti e la loro limitazione agli esperimenti che portano a delle scoperte o a delle innovazioni fondamentali. Questo è un modo sbagliato, paradossale, di ragionare, anche se in buona fede. È sbagliato prima di tutto perché gran parte degli esperimenti sugli animali sono fatti in maniera tale da non indurre sofferenze. In secondo luogo le scoperte sono come le creste delle onde, che non ci sarebbero se sotto non ci fossero miliardi e miliardi di molecole di acqua. Al di fuori della metafora, ciò significa che per avere le scoperte bisogna che ci siano tante persone competenti e con esperienza che fanno esperimenti, perché è solo su una base diffusa di attività scientifica che si raggiungono i picchi di nuove conoscenze e relative applicazioni.

A volte ci si chiede perché in biomedicina gli americani o gli inglesi fanno tante più scoperte degli italiani: una differenza significativa sta sicuramente nel numero di ricercatori attivi nei vari ambiti in cui la sperimentazione animale è tuttora necessaria. Un primo ambito, che richiama maggiormente l’attenzione dei contrari alla sperimentazione animale, è quella dello sviluppo dei farmaci, con i relativi  test tossicologici, e del controllo degli alimenti. Fino a quando ci sarà una richiesta di farmaci per il trattamento di malattie umane e animali, e fino a quando l’alimentazione dell’uomo continuerà ad essere basata in gran parte su prodotti animali, il controllo scientifico della produzione animale e della tossicità dei farmaci rimarrà indispensabile come dovere della società.  L’altro ambito in cui la sperimentazione sugli animali è necessaria è quello molto più ampio dello sviluppo delle conoscenze dei meccanismi delle funzioni fisiologiche e delle loro alterazioni nelle malattie. Queste conoscenze sono indispensabili non solo per lo sviluppo dei farmaci, ma anche per gli interventi di prevenzione delle malattie. Che la sperimentazione sugli animali sia necessaria in questo ambito è particolarmente evidente nel caso di malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo e viceversa. Solo quando si è capito che i ratti trasmettevano all’uomo l’agente della peste è stato possibile prevenire le epidemie. Ma ancora oggi ci sono tante malattie comuni all’uomo e agli animali in cui i meccanismi patogeni, i meccanismi di trasmissione, i meccanismi dell’evoluzione della malattia non possono essere studiati se non facendo degli esperimenti sugli animali. Basta ricordare l’influenza aviaria, l’influenza dei suini e la malattia cosiddetta della “mucca pazza”, causata dai prioni, agenti infettivi costituiti da molecole proteiche modificate che nell’uomo producono una demenza devastante. Ma vorrei raccontarvi la storia di una scoperta recente in questo campo che dimostra l’importanza di sperimentazioni combinate sull’animale e sull’uomo, per capire una malattia che colpisce entrambi. È un’infestazione, una malattia prodotta da un microorganismo, il protozoo toxoplasma che infesta molti organismi ma che ha come ospite terminale l’intestino del gatto. L’infestazione è pericolosa soprattutto nelle donne gravide perché produce gravi alterazioni del feto, ma anche negli adulti essa produce disturbi insidiosi, meno gravi che nel feto ma difficili da diagnosticare e da curare. Si calcola che l’infestazione da toxoplasma affligga un terzo dell’umanità, e un meccanismo che la mantiene così estesa è stato scoperto recentemente grazie alla sperimentazione animale. Essendo l’ospite terminale del parassita, il gatto è la sorgente principale dell’infestazione umana, e il gatto si infesta spesso mangiando ratti a loro volta infestati. E’ stato scoperto che i ratti infestati dal toxoplasma manifestano una profonda modificazione del loro comportamento. Non scappano più, come fanno i ratti non infestati, quando avvertono la presenza di odori derivanti dai gatti, anzi ne sono paradossalmente attratti perché il parassita altera selettivamente il loro cervello. Un meccanismo puramente evolutivo, che fa sì che anche degli animali unicellulari sembrino avere un piano senza avere una mente, ha selezionato dei tipi di toxoplasma capaci di alterare nei ratti i circuiti cerebrali dell’attrazione sessuale, annullando l’avversione verso l’odore dell’urina del gatto e trasformandola in attrazione. Attrazione fatale, visto che il risultato della trasformazione favorisce notevolmente la cattura dei ratti infestati da parte dei gatti. E l’effetto non dipende da un deterioramento cerebrale aspecifico, poiché i ratti infestati si dimostrano normalmente capaci di difendersi da altri attentati alla loro sopravvivenza. E’ stato inoltre scoperto che   soggetti umani infestati dal parassita manifestano sintomi di tipo schizofrenico, anche se non così marcati da giustificare una diagnosi di schizofrenia. La somministrazione di aloperidolo e acido valproico, due tipici farmaci antischizofrenici per l’uomo, ai ratti infestati esibenti la reazione patologica di attrazione all’urina del gatto li ha normalizzati. Pur rifuggendo dall’idea che sia stato trovato un modello “rattesco” della schizofrenia, non si può non constatare l’importanza per la biologia e la medicina dei risultati convergenti delle ricerche sulla toxoplasmosi umana e degli animali. Che gli animali e l’uomo siano diversi è ben chiaro ad ogni sperimentatore, ma la teoria dell’evoluzione ci dice che tutti discendiamo da un lontanissimo antenato comune e che, fino a 7 milioni di anni fa, esisteva un antenato comune all’uomo e allo scimpanzé, l’animale appartenente all’ordine dei primati più vicino biochimicamente, molecolarmente e, per certi aspetti, anche cerebralmente, a noi.

Le conquiste della biologia debbono molto alla capacità di individuare che cosa abbiamo in comune con diverse specie animali e che cosa abbiamo di diverso. Le differenze ci sono ma non sono metafisiche, come sembrano suggerire alcuni discorsi degli animalisti. Uomini e topi sono diversi non metafisicamente, ma perché per centinaia di milioni di anni hanno seguito percorsi evolutivi diversi e si sono adattati ad ambienti diversi. Ciò non toglie che uomini e topi possiedano meccanismi vitali condivisi perché ereditati da un progenitore comune e mantenuti durante l’evoluzione per il loro valore universale di adattamento all’ambiente. Per esempio il  meccanismo fondamentale della regolazione della glicemia è lo stesso o molto simile in tutti i mammiferi, il che spiega perché per molti decenni il diabete giovanile umano abbia potuto essere contrastato con l’insulina del maiale, prima che l’insulina umana potesse essere sintetizzata con tecniche di biologia molecolare. Il progresso della biologia e della medicina richiede vari tipi di sperimentazione, fra i quali la sperimentazione sugli animali ha sempre occupato una posizione di rilievo. In Italia la ricerca scientifica è ostacolata per varie ragioni, dalla mancanza di fondi alla carenza di strutture alle pastoie e alle proibizioni che in campo biologico riguardano non solo la sperimentazione sugli animali, ma anche la ricerca sugli organismi vegetali geneticamente modificati  e sulle cellule degli embrioni umani. Regolamentare, anche rigidamente, la sperimentazione animale, come è nello spirito della recente direttiva europea, risponde alla giusta richiesta di evitare sofferenze ad organismi senzienti. Ma voler vietare ogni forma di sperimentazione animale, oltre che contrario alle leggi vigenti sulla produzione dei farmaci, significa ignorare come sono progredite finora la biologia e la medicina, ostacolarne ulteriori progressi, e affossare la ricerca biomedica italiana.

Grazie.