La morte pulita di Lucio Magri

“Ho deciso, vado in Svizzera, il mio tempo è passato, non ho più niente da rivendicare, grazie di tutto…”(Lucio Magri, mercoledì 23 novembre, affacciandosi per l’ultima volta a Montecitorio per salutare i vecchi amici della politica).

Lucio Magri, giornalista, intellettuale, fondatore del Manifesto, lunedì 28 novembre ha scelto di morire col suicidio assistito in una clinica svizzera per sfuggire a una profonda depressione causata dalla morte della moglie Mara, stroncata tre anni fa da un tumore (verrà sepolto accanto a lei, nella tomba che aveva fatto costruire a Recanati).
Lucio Magri “ha avuto una vita intensa, battagliera, ricchissima. Nato nel 1932, era entrato nella De e poi nel Pci negli anni ‘50. Dopo l’insurrezione in Cecoslovacchia, il dissenso con il partito lo spinse, insieme a Rossana Rossanda, Luigi Pintor e altri, a fondare la rivista il Manifesto. Radiato dal partito, partecipò anche alla trasformazione della rivista in quotidiano nel 1971, ma poi se ne distanziò. Nel 1984 rientrò nel Pci, finché ci fu la scissione e il partito si trasformò in Pds. Aderì quindi a Rifondazione comunista, dove rimase fino al 1995, quando la sua corrente passò ai Ds. Si distanziò anche da questa scelta e rimase fuori dal partito”.
Se volevano insultare Magri, a Botteghe Oscure, negli anni di serrata battaglia politica fra destra e sinistra, per un ventennio gli dicevano: “Abbronzato!”. “Perché è vero: Magri era bello, molto bello, con il ciuffo corvino poi imbiancato, prima dall’argento, poi da una neve precoce. Aveva gli occhi azzurri che tendevano al blu, un viso regolare che a molti ricordava quello di Gary Cooper, Lucio aveva fama di grande seduttore, `aveva avuto una storia d’amore con Marta Marzotto che aveva suscitato scandalo fra i puritani del politicamente corretto, e – è vero – spesso era anche abbronzato. Ma era soprattutto un intellettuale rigoroso (…) Lucio Magri è morto da suicida assistito, in Svizzera, per scelta volontaria.
È morto dopo aver provato due volte a togliersi la vita, è morto senza conversioni in punto di morte, in modo opposto al suo grande rivale (anche in amore) Renato Guttuso che scrisse contro di lui una preghiera per Marta Marzotto che iniziava con “Ave Martina” e finiva con un perfido “E liberaci dal Magri amen”.
Quando perse la moglie, Lucio Magri disse all’amico Valentino Parlato: “E’ morta Mara, per me è una perdita irreparabile. Volevo morire con lei ma lei mi ha chiesto di non farlo, mi ha detto che dovevo finire il mio libro (Il sarto di Vini, ndr). Ecco adesso il libro è finito, ha avuto anche un buon successo. Adesso sono arrivato al termine”.

Da quel giorno, Magri ha dedicato il resto della sua vita all’organizzazione della sua morte, “con una meticolosità agghiacciante”.
Fino a venerdì 25 novembre, quando ha fatto il viaggio in Svizzera dal quale è rientrato in Italia nel carro funebre da lui prenotato.

Lucio Magri soffriva di una “depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico conclamato, evidentissimo – s’era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un’ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei.
Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un’insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando
agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato”.
Venerdì 25 novembre, Lucio Magri lascia la sua casa in piazza del Grillo diretto in Svizzera, dall’amico medico che l’aiuterà a morire. La clinica della “bella morte” è una casa blu alla periferia di Pfafficon, venti chilometri da Zurigo, dove si può scegliere tutto, persino la musica da sentire: si può morire ascoltando Mozart o i Pink Floyd.
“Centoquaranta persone, fino ad ora, quest’anno, hanno visto il mondo per l’ultima volta dal letto reclinabile con il sacco lenzuolo fiorato che è qui, al piano terra. Hanno sentito come ultimo odore quello del fritto del ristorante. Hanno visto dalle grandi vetrate il verde opaco dei pini argentati.
Un’iniezione, quindici grammi di pentobarbital di sodio sciolto in 60 centilitri d’acqua, due minuti, poi il sonno. E, dopo, il coma profondo, E dopo ancora solo la morte”.

Non era la prima volta che Magri partiva per la Svizzera, l’aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. “Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: “Ma no, non preoccupatevi, torno domani”. La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L’ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio”.

Lunedì 28 novembre, nella casa di Magri, intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo, Valentino Parlato. Aspettano che qualcuno telefoni, e dica che Lucio non c’è più. “Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione? E affettuosa, Lana, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. (…)Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono.
(…) Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano.
Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un’espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta.
“A Emma, il suo nonno”. Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo. Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita”.
“Niente pubblicità, niente funerali, niente necrologi. Vorrei evitare cerimonie pubbliche, rimembranze, etc…” (Lucio Magri, prima di andare in Svizzera, in una lettera all’amico Famiano Crucianelli).

Rossana Rossanda, che è rimasta con Magri, accanto al suo letto, fino alla fine: “È stato
tristissimo. Non terribile, ma tristissimo”.

Commento di monsignor Sgreccia, voce della Chiesa, alla notizia del suicidio di Magri:
“Non siamo padroni della nostra vita”.
I commenti dei politici. Maria Antonietta Coscioni, deputata radicale: “Spero che la vicenda di Lucio Magri, che ha deciso di non soffrire più, sia di insegnamento. Magri riteneva intollerabile vivere, preda di una depressione che lo faceva scivolare inesorabilmente in un buio provocato da ragioni pubbliche e private che sono insondabili e non vanno giudicate. Per porre fine al suo dolore, ha però dovuto “emigrare”, un viaggio con un biglietto di sola andata…”.
Melania Rizzoli, deputata del Pdl: “Agghiacciante e di cattivo esempio la pubblicità data al suicidio assistito di Magri, oltretutto la depressione oggi viene curata con successo in milioni di pazienti nel mondo…”.
Maurizio Ronconi dell’Udc: “Il suicidio non è un atto coraggioso ma di viltà”.
Fabrizio Cicchitto del Pdl: “L’esistenza di cliniche per la buona morte fa venire i brividi”. Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato: “Non è possibile pretendere che scelte personali, che ritengo in contrasto con il diritto naturale, le compia lo Stato”.
I commenti degli intellettuali. Valentino Parlato: “Se uno è padrone della vita è anche padrone della sua fine. Nella Costituzione non c’è scritto che tutti i cittadini hanno il dovere di campare finché morte naturale non li fulmini”. Vittorio Feltri: “In questo nostro strambo Paese non solo non si può più andare a donne (…) ma nemmeno decidere come crepare. Vietato”. Paolo Flores d’Arcais: “Lucio Magri è dovuto andare in esilio, come Mario Monicelli è stato costretto a gettarsi da una finestra del quinto piano. Una morte senza ulteriore angoscia e dolore non è contemplata dal nostro Stato clericale, dal partito dei torturatori in tonaca e dei baciapile di establishment. Che ogni maledizione sia con loro”. Il teologo Vito Mancuso: “La Bibbia non condanna mai, in nessun luogo, il suicidio. L’hanno osservato nel ‘900 i maggiori teologi contemporanei, tra cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Kùng. “Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia”, scrive Barth, aggiungendo che si tratta di “un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e servirsene in senso morale!”. (…)
Il compito dei cristiani oggi non è di emettere condanne qualificando negativamente le sofferte scelte di chi si suicida. È piuttosto di vivere la fede nella dimensione spirituale dentro cui l’anima vive al sicuro, anche quando il corpo tradisce”. Adriano Sofri: “Il lusso supremo della civiltà umana sta nel disporre di una propria vita personale, dunque di una propria personale morte”. Filippo Facci: “In Italia puoi decidere di andare all’estero a ucciderti, legalmente, basta avere i soldi e le conoscenze. In Italia puoi decidere di andare all’estero per la fecondazione assistita, basta avere i soldi e le conoscenze. In Italia puoi decidere di ricorrere all’eutanasia di una persona cara se non vuoi andare all’estero – e qui forse bastano le conoscenze. Esattamente come in Italia potevi abortire o divorziare alla Sacra Rota: bastavano i soldi e le conoscenze, e in parte è ancora così. Gli è che una società del genere, in cui i diritti o le facoltà sono regolati dai soldi e dalle conoscenze, è feudale e ingiusta prima ancora che classista. (…) I benestanti e gli informati, intanto, sanno come fare. Se sono malati incurabili, e se soffrono come cani, sanno come fare. Persino se vogliono suicidarsi, sanno come fare, sanno dove andare. Mentre i poveri, cazzi loro”.

“In Italia è difficile morire, ma anche in Svizzera non ti regalano nulla. C’è persino la lista d’attesa per suicidarsi, il che è grottesco. Prima di partire bisogna dimostrare di essere nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, e questo già costa caro. Poi arriva l’associazione Exit Italia, quella che, insomma, è più attiva sul fronte dei viaggi suicidi verso la Svizzera, e organizza il resto. Le statistiche dicono che ogni anno arrivano a Zurigo, nella zona industriale di Pfaffikon, oppure a Losanna, dove c’è l’unico ospedale che mette a disposizione stanze per suicidarsi, ma non il personale, o – ancora – a Berna, dove c’è la sede della famosa Dignitas, la madre di tutte le “case” per il “fine vita assistito”, circa una trentina di italiani.
Un numero che negli ultimi anni ha subito un’impennata perché “le discussioni sul testamento
biologico – ricorda Emilio Coveri, presidente della Exit – hanno aiutato parecchio”.
Il business, anche. Molto prosaicamente, in Svizzera c’è un prezzo politico di base per morire; costa circa 3 mila euro.
“Che poi – osservava cinicamente sempre Coveri – è comunque meno di quanto costa un funerale in Italia”.

Perché proprio un suicidio assistito, in Svizzera, con un’iniezione letale? “Lucio diceva che lui non poteva morire sotto un treno o una macchina o gettandosi da un ponte. Voleva una morte pulita” (Valentino Parlato a Riccardo Barenghi).

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