Eutanasia: ora in Italia siamo tutti più liberi

Cappato, Welby, Gallo e Imbrogno in Corte costituzionale

L’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio così come costruito nel 1930, accertata un anno fa dalla Consulta e dichiarata ufficiale il 25 settembre, è arrivata dopo due giorni di camera di consiglio.

La sentenza, così come preannunciata attraverso un comunicato stampa della Corte costituzionale, segna la storia dei diritti della persona malata nel nostro Paese.

Grazie a Fabiano Antoniani (Dj Fabo) che decise di rendere pubblica la sua storia e alla disobbedienza civile attivata dall’autodenuncia di Marco Cappato dopo averlo accompagnato in Svizzera, con l’ordinanza 207/2018 dell’ottobre scorso, i giudici costituzionali sospesero per 11 mesi il giudizio sull’articolo 580 del codice penale, al fine di «consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina».

Di fronte a un Parlamento che a luglio di quest’anno osservò come “non sussistono le condizioni per addivenire all’adozione di un testo base”, la sentenza di fine settembre è intervenuta per porre fuori dal nostro ordinamento il reato tassativo, in ogni circostanza, di aiuto al suicidio per chi agevola l’esecuzione del proposito, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili nella piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli.

La forza della decisione dei Giudici della Consulta sta, tra le altre, nell’essersi preoccupata di tutelare la persona malata, in un momento di possibile vulnerabilità anche psicologica, da rischi di abusi. Escludendo così, nel rispetto del controllo pubblicistico, ciò che impropriamente viene definito “pendio scivoloso”. Tutto ciò, viene ribadito, “in attesa di un indispensabile intervento del legislatore”.

Nel frattempo, la non punibilità viene subordinata al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda, rimettendo al Servizio Sanitario Nazionale sia la verifica delle condizioni previste, sia delle modalità di esecuzione, sentito il parere del comitato etico competente.

Sono dunque accolte le richieste pubbliche di Fabiano Antoniani che, attraverso la disobbedienza civile di Marco Cappato, si era prefissata sin dal suo inizio la tutela delle persone deboli, il rispetto del loro diritto alla vita combinato con il rispetto del loro diritto di autodeterminazione, nonché l’emersione della clandestinità che fino ad oggi il silenzio del legislatore ha avallato.

Con una siffatta decisione, la Corte non ha in alcun modo evidenziato nel nostro ordinamento un “diritto alla morte”, ma si è occupata, dal punto di vista penalistico, di chi aiuta altre persone – nelle indicate e circoscritte condizioni – che decidono di porre fine alla propria vita, nel rispetto del proprio concetto di dignità. Il divieto di istigazione al suicidio e di assistenza al suicidio al di fuori delle condizioni prefissate, rimangono dunque reato per salvaguardare “persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, che potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita”, come scrissero i giudici nell’ordinanza dello scorso anno.

Da oggi in Italia siamo tutti più liberi, anche coloro che non sono d’accordo. Nessun diritto già riconosciuto è stato scalfito.

Articolo pubblicato a pagina 5 de Il Manifesto del 27 settembre 2019 a firma Francesco Di Paola, avvocato del collegio difensivo di Marco Cappato, e Matteo Mainardi.